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Pedagogia speciale

A cura della Professoressa Loredana Piccolo

La Pedagogia appartiene alle Scienze dell’Educazione, si avvale cioè dei mezzi propri della scienza, mette a fuoco il concetto di educazione, sviluppa soluzioni ai problemi educativi avvalendosi anche del contributo di altre scienze.

La pedagogia studia:

  • l’educazione e la pratica dell’educazione stessa;
  • la relazione educativa ed  i suoi metodi;
  • le variabili che favoriscono od ostacolano le relazioni educative;
  • la formazione delle persone nell’arco della vita.

La pedagogia speciale, è un ramo della pedagogia generale, studia e sostiene i processi formativi delle persone con bisogni speciali e di conseguenza i metodi ed i mezzi specifici per rispondere ai bisogni educativi speciali.la formazione delle persone nell’arco della vita.

I bisogni educativi speciali oggetto della Pedagogia speciale sono determinati da condizioni oggettive determinate da menomazioni, deficit, condizioni di salute  che  possono trasformare in disabili le persone che ne sono affette.

Bisogni educativi di persone che, loro malgrado, si discostano, per motivi fisici, di funzionamento, di partecipazione, dallo sviluppo di coloro che vengono considerati nella “norma”.

In medicina, ed in altre scienze, il concetto di norma si presenta quale categoria di riferimento es. a proposito di fatto o fenomeno esente da significati patologici.

Il concetto di norma in materia educativa, correlandosi a molteplici fattori connotati da variabili complesse, non ultime quelli socio-ambientali, di per sé non è categorizzabile in senso assoluto. Tuttavia, quale termine comparativo- statistico, quale dato oggettivo facente riferimento per computo medio ad un certo target,  è utile nella  definizione   dei bisogni educativi speciali delle persone che da esso si discostano in ragione di:

  • tempi di sviluppo lontani da quelli dei coetanei;
  • presenza di disturbi  e/o deficit che non gli consentono di utilizzare le risorse messe a disposizione dall’ambiente.

La pedagogia speciale interessandosi all’educazione di persone aventi bisogni educativi speciali non ha cambiato l’ambito di ricerca della pedagogia, ma lo ha precisato definendo i bisogni del protagonista della relazione educativa e di conseguenza i metodi specifici per rispondere ai suoi  bisogni educativi speciali.

Nel tempo, il campo di interesse della pedagogia speciale, legato per un certo periodo ai processi educativi in età evolutiva di persone diversamente abili ospitate da istituzioni speciali, si è aperto a nuove problematiche sollecitate da istanze politico – sociali prima fra tutte: il diritto di ogni persona a partecipare pienamente alla vita della società.

Con l’acronimo “BES“, in campo educativo, indichiamo i bisogni educativi speciali (M.I.U.R. 2012) per cui si potranno prevedere misure compensative, dispensative, valutative.

Possiamo raggruppare i BES in tre macro – aree, precisando che la locuzione “bisogni speciali” di per sé non descrive i bisogni educativi e formativi di una persona né tantomeno il suo funzionamento:

  • disabilità, per cui è possibile prevedere l’erogazione di docenti di sostegno ed è prevista la stesura del P.E.I. (piano educativo individualizzato): ex 104/92 e successive;
  • disturbi evolutivi specifici (disturbi dell’apprendimento, deficit del linguaggio, disturbo dell’attenzione iperattività) per cui è prevista la stesura del P.D.P. (piano didattico personalizzato);
  • svantaggio socio  – economico –  culturale –  linguistico per cui è prevedibile, ma non obbligatoria la stesura del P.D.P. (piano didattico personalizzato).

L’O.M.S., nella Conferenza di Copenaghen del 1981, ha definito l’handicap: ” … una sorta di svantaggio a lungo termine, che nuoce al grado di partecipazione di un individuo alla vita quotidiana”.

Numerosi autori (prima della definizione della Classificazione Internazionale del Funzionamento,  della Disabilità, della Salute – ICF -), hanno sottolineato come l’handicap sia lo svantaggio che il soggetto con deficit, o con menomazioni, si trova a subire a causa delle condizioni ambientali e sociali del contesto in cui vive, se questo non ne favorisce la partecipazione e lo sviluppo delle potenzialità.

 L’handicap non è una condizione, non è né una malattia né l’esito di una malattia, ma la distanza tra le aspettative sociali che riguardano una certa persona e le sue performance.

La legge quadro per “l’assistenza, integrazione sociale e i diritti delle persone handicappate” (L. 104/1992), all’art. 1 recita:

“Soggetti aventi diritto – È persona handicappata colui che presenta una minorazione fisica, psichica o sensoriale, stabilizzata o progressiva, che è causa di difficoltà di apprendimento, di relazione o di integrazione lavorativa e tale da determinare un processo di svantaggio sociale o di emarginazione.”

L’art. 1 della legge quadro per “l’assistenza, integrazione sociale e i diritti delle persone handicappate” (L. 104/1992), pone l’accento sulla minorazione che, essendo l’esito di una patologia, è valutabile solo da un clinico. Se l’handicap è uno svantaggio, che si verifica nell’impatto sociale, non ha senso che la discordanza tra le performance dell’individuo con un certo deficit o menomazione e le richieste che la società gli pone siano misurate da una commissione medica.

La definizione di handicap della L. 104/1992 declina  l’esercizio del diritto e l’erogazione delle risorse delle persone diversamente abili  affidando la ricognizione diagnostica al personale sanitario;  nei più, tale approccio ha favorito l’idea che la risposta ai bisogni, a prescindere dalla loro natura,  debba essere subordinata al parere dei clinici che sovente soffermano l’attenzione sulla minorazione, menomazione, disabilità e non sugli aspetti funzionali relativi al potenziale esprimibile. L’handicap, dunque, non dovrebbe essere confuso, neppure dai legislatori, né dai giudici, né dai ministri, con una malattia (realtà connotata da danni organici e/o funzionali che le sono propri), né con l’esito di una malattia che è rappresentato invece dalla disabilità.”.

Dovremmo allora chiederci chi è questo handicappato “tipo”, di cui non si conosce il potenziale e quindi i bisogni, ammesso che gli sia consentito averne.

La diversità appartiene ad ogni momento storico, ad ogni cultura, quindi, è possibile  parlarne da diversi punti di vista: culturale, religioso, scientifico, politico, etc.,.  La lingua essendo strettamente collegata al momento storico ed al contesto, descrive anche le aspettative che una società manifesta nei confronti delle persone che esprimendo bisogni specifici, cioè speciali, sono state appellate:

  • idioti,
  • deficienti,
  • handicappati,
  • disabili,
  • diversamente abili,
  • diversabili.

Per non dire poi dei ciechi, non vedenti, videolesi;  dei sordi, non udenti, audiolesi, etc…

Sì. Sovente l’accezione linguistica corrente si insinua subdolamente nel linguaggio proprio della pedagogia speciale dando connotazioni negative, quando non offensive, a termini nati per definire bisogni specifici e non già per essere utilizzati quali sinonimi di epiteti.

Es. Sei spastico?

Se poi il termine è inusito nel suo significato originario nel linguaggio comune può anche accadere che decada dall’uso che gli è proprio per assumere altri significati.

Es. deficiente.

Nel 2003, “Anno Europeo delle Persone Disabili” è stato  pubblicato il volume “Diversabilità” su un nuovo termine invalso nell’uso “diversabile”.

Claudio Imprudente intervistato in merito all’uso del termine “diversabile”così si esprime: “Ci sono importanti ragioni per cui vale la pena operare la distinzione dis-abile/diver-abile: innanzitutto perché il termine dis-abile obbedisce alla logica della staticità, dell’immutabilità, della fotografia. (…) Il termine disabile è un biglietto da visita che parte già male. È come se uno bussasse alla porta e vi dicesse: “Buongiorno: sono una persona non-abile”. Il biglietto da visita deve cambiare: bisogna sottolineare le abilità e non le disabilità. […] Per esperienza si è visto come parole un tempo utilizzate per indicare particolari tipi di deficit, come idiota, stupido, cretino, col tempo siano diventate parolacce. Anche parole come handicappato o cerebroleso alcune volte vengono utilizzate come insulto. Mi sembra che la parola diversabile più difficilmente seguirà questo percorso di deterioramento, proprio perché sottolinea una positività e non una negatività. […] Come ho già detto mille volte la parola disabilità proprio non mi piace, allora perché non trasformare il 2003 in “anno europeo della diversabilità”? Sarebbe l’occasione per fare un salto di qualità culturale e politico anche per chi si sente solo una persona portatrice di deficit”.

No, non sono stati abrogati, ma dal I gennaio 2019 avrebbero dovuto subire sostanziali modifiche in virtù del disposto del DSGL 66/2017, la cui attuazione è stata sospesa dal MIUR in dicembre 2018 (V. finanziaria 2018). Per l’a.s. 2018 – 19 il riferimento per la stesura di D.F., PDF, PEI, rimane invariato.

L’unità multidisciplinare dell’A.S.L. composta: dal medico specialista nella patologia segnalata, dallo specialista in neuropsichiatria infantile, dal terapista della riabilitazione, dagli operatori sociali.

Purtroppo no, l’unità multidisciplinare sovente nella pratica quotidiana è ridotta alla persona dello psicologo o del neuropsichiatra infantileche, possono avere qualche oggettiva difficoltà a stilare la D.F. in assenza del concorso degli specialisti previsti, soprattutto in presenza di una persona affetta da minorazioni della vista o dell’udito.

Non sempre, sovente la diagnosi funzionale si ferma ad una rilevazione clinica che non utilizza parametri funzionali: il dato anamnestico, il momento di insorgenza della minorazione, il potenziale residuo. Talvolta in presenza di minorazioni plurime si fa cenno marginalmente al deficit sensoriale, come se il deficit motorio definisse di per sé la situazione di un alunno disabile. È opportuno precisare però che la situazione dei disabili motori affetti da minorazioni visive non è paragonabile a quella di coloro che, seppur colpiti da gravi deficit motori, possono godere del senso della vista.

Si può ben immaginare quanto una diagnosi non esaustiva nell’analisi delle diverse aree possa generare equivoci tali da pregiudicare l’attribuzione delle risorse e da non erogare tempestivamente i mezzi necessari. soffermare l’attenzione esclusivamente sul deficit vuol dire  disintegrare la persona riducendola ad una “etichetta”, di conseguenza a scuola sentiremo parlare  dello spastico, del Down, delcieco e non dell’alunno.

  • l’unità multidisciplinare;
  • il team docente (curricolari e specializzati);
  • gli educatori;
  • i genitori dell’alunno.

Perché è il documento che dovrebbe consentire il dialogo tra le famiglie e le unità multidisciplinari mettendo in comune i linguaggi, consentendo di passare dalla diagnosi funzionale, espressa in aree, ad una visione diagnostico – prognostica, espressa in segmenti analitico – funzionali esprimibili dall’alunno nei tempi brevi e medi. Quando la diagnosi non è stata redatta prendendo in considerazione tutti gli assessment non è possibile stilare pienamente il PDF da cui si dovrebbero evidenziare gli obiettivi che poi ci permetteranno di realizzare il P.E.I. L’osservazione di docenti ed educatori potrebbe correre il rischio di essere distolta dalla capacità di relazione dell’alunno che mobilita una o più funzioni, correndo il rischio di semplificare obiettivi che si potrebbero ipoteticamente valutare quali irraggiungibili perché la capacità di relazione è la tensione che rende esprimibili le funzioni.

La  L. 104/1992 si ispira ad un modello di ricognizione diagnostica sequenziale denominato ICIDH: Classificazione Internazionale delle Menomazioni, delle Disabilità e degli Handicap,  malattia – menomazione – disabilità = handicap.

L’O.M.S., il 22 maggio 2001, ha approvato la Classificazione Internazionale del Funzionamento, della Disabilità e della Salute (ICF), con l’intento di rivedere la “Classificazione Internazionale delle Menomazioni, delle Disabilità e degli Handicap” (ICIDH).

La Classificazione Internazionale del Funzionamento, della Disabilità e della Salute (ICF) introduce sostanziali cambiamenti nella ricognizione diagnostica:

  • descrive la situazione della persona diversamente abile  considerando  sia componenti della sua salute, sia stati ad essa correlati;
  • abroga i termini “Handicap” e “Menomazione”;
  • introduce i termini “Funzionamento” “Disabilità”, “Attività” e “Partecipazione”.

L’ICF considera la disabilità  come una complessa interazione di condizioni, molte delle quali dipendenti dall’ambiente sociale, che richiedono quindi cambiamenti sociali; parlare della disabilità implica quindi un problema di diritti umani.

“L’I.C.F. costituisce  uno standard utile a definire le persone diversamente abili utilizzando come parametro di riferimento la salute ed il funzionamento e non più la malattia.

L’I.C.F. è un modello dinamico basato sul presupposto che salute e disabilità sono dimensioni dello stesso fenomeno, quindi può descrivere una persona diversamente abile valutandone:

  • funzionamento;
  • attività;
  • partecipazione.

Perché la Classificazione Internazionale del Funzionamento, della Disabilità e della Salute (ICF) nel tempo metterà a disposizione uno strumento di lavoro universale ed integrativo bio – psico – sociale. Un modello interattivo, complesso nella misura in cui sono complesse le persone e le interazioni che queste hanno con il proprio ambiente sociale. Il cambiamento culturale sarà espresso dalla considerazione che qualunque persona in qualunque momento della vita possa avere una condizione di salute che in un ambiente sfavorevole diventa disabilità. Sottolineare che chiunque possa diventare diversamente abile in una certa condizione di salute, in un certo ambiente, in qualunque momento.

Sì. La Classificazione Internazionale del Funzionamento, della Disabilità e della Salute (ICF) pone l’attenzione su un problema di maggioranze e non più di minoranze, la diversa abilità non rimane patrimonio di pochi elettinon riguarda più in modo prossimale una persona normodotata, diventa problema politico perché il discorso si sposta dai problemi di minoranze di cittadini con bisogni speciali ad un problema che riguarda la salute pubblica. Se è vero che la salute è fondamento dello sviluppo di un Paese e che la salute e la diversa abilità sono due aspetti dello stesso fenomeno, sapremo dalla posizione che occupano nell’agenda delle priorità dei politici in che misura sono oggetto di attenzione.

Sì. La salute e la disabilità, nella La Classificazione Internazionale del Funzionamento, della Disabilità e della Salute (ICF), diventano un problema di investimenti e di gestione delle risorse. L’I.C.F. abbandona un modello minoritario per un modello universale che seppur condivisibile trova la nostra società fortemente impreparata. L’esercizio del diritto di ogni cittadino, sia esso disabile o normodotato, svincolato dall’adempimento di norme scaturite da modelli minoritari per adesso è ancora sul piano dell’utopia. Non possiamo fare a meno di pensare che ogni persona debba essere integrata nella società non perché abbia diritti speciali, ma perché dovrebbe essere normale che una società civile contempli le esigenze di tutti i suoi cittadini qualunque sia il bisogno che essi esprimano, è, ahimè, doveroso ammettere che per adesso la nostra società riesce stentatamente a riferirsi a modelli minoritari che trovano applicazione più per la buona volontà degli operatori coinvolti che per indirizzi politici.

Una società può riconoscere alla persona diversamente abile il diritto di cittadinanza solo se è improntata al rispetto della diversità riconosciuta quale valore. Nello specifico si fa riferimento alle “diversità” che incidono sul funzionamento e quindi sulla partecipazione (possibilità di esprimere pienamente il proprio potenziale) di una persona perché affette da deficit e/o da minorazioni e/o menomazioni. In tal senso essendo in presenza di una importante distanza tra il diritto affermato dalle norme e le possibilità di esercitarlo,  non siamo ancora nella possibilità di affermare di essere in presenza di condizioni paritetiche.

È necessario considerare una complessa serie di variabili che possiamo racchiudere, seppur non esaustivamente, in due macro-categorie:

  • Fattori personali: stile di vita, abitudini, educazione, istruzione, professione;
  • Fattori ambientali: cultura di provenienza, società in cui si vive, famiglia, scuola.

Riteniamo non sia più accettabile, dovremmo aver superato, da tempo,  la forte accentuazione clinica introdotta dalla L. 104/1992 perché  al di là di qualunque minorazione, menomazione,  l’oggetto di interesse degli interventi è in primo luogo una persona. Intervenendo sul e non per corriamo il rischio di annullare l’integrità della persona […] attribuendole, con il termine handicappato, una amorfa etichetta che anziché favorire la risposta ai bisogni cerca di standardizzare questi ultimi.

L’unica possibilità che abbiamo di lavorare in quest’ottica è quella di conoscere le minorazioni e le disabilità che da esse possono derivare affinché non ne divengano sovrastruttura in forma di handicaps. Solo la conoscenza ed il rispetto permettono al singolo di integrarsi nel proprio ambiente sociale o in quello che sceglierà.

È difficile dare una risposta, non conoscendo il target  di riferimento; tuttavia in linea generale, considerato che le parole sono pietre angolari, se usate con scarso senso di cognizione possono trasformarsi in “armi”; così che i compagni di squadra, di classe, le utilizzeranno in luogo ed in alternativa alle più comuni parolacce.

“Che sei spastico!?”

“Oggi mi sembri un po’ handicappato”.

La questione più urgente non è tanto quella di soffermare l’attenzione sull’appellativo che utilizziamo per denominare una certa situazione quanto sull’immagine che rimandiamo all’interessato ed alla società di una certa persona, cioè sulla capacità che ognuno di noi ha di guardare alla diversità come ad una  risorsa.

Negli ultimi venti anni, si è osservato un costante processo di medicalizzazione in risposta ai bisogni educativi e formativi delle persone diversamente abili che riteniamo abbia influenzato negativamente i contesti educativi, in primis la famiglia, in secundis la scuola, che hanno largamente abdicato le proprie prerogative per assoggettarsi ad un linguaggio non appartenente alle proprie realtà.

La diversità può essere valorizzata dalla conoscenza fondata sull’uguaglianza nel rispetto delle diversità e dovrebbe da tempo già essere realtà.

In questo contesto, essendo materia assai delicata e non generalizzabile, i dati registrati nella nostra più che trentennale esperienza, ci inducono a soffermare l’attenzione, seppur in estrema sintesi, sugli aspetti emotivo – relazionali.  Nella maggior parte delle situazioni, dolore e sconforto si impadroniscono della coppia, può essere un’esperienza così dolorosa che non si riesce a parlarne. I genitori si trovano all’improvviso come su una giostra in cui tutti vogliono dire la propria anche quando non è richiesto alcun parere e non si desiderano condivisioni. Poi, attraversato questo tourbillon  la solitudine cala, il silenzio dell’imbarazzo e la scomparsa degli amici si fanno sentire. Sono pochi i genitori che riescono a rimettersi in piedi da soli. I più sono costretti a chiedersi “Dove sono i servizi?”.  I genitori devono ripartire da capo cambiando rotta, fare i conti con la notizia, iniziare il percorso di riconoscimento dell’evento e l’affannosa ricerca di aiuti.

Potremmo riassumerli nella formula “chi, come, quando, cosa?” indicando per macro – aree che il “come” cioè con quale modalità viene porta la notizia, la tempistica “quando” a quale distanza dall’evento e “dove” in un corridoio, in una saletta riservata? Da chi ricevo la notizia, da solo o in coppia?  Lo stato d’animo, la comprensione di quanto mi dicono, la percezione di quanto è accaduto, sono fortemente influenzati dai fattori descritti.

La famiglia è il primo luogo in cui vengono attivati processi educativi e formativi, la nascita di un figlio diversamente abile comporta la necessità di integrare i percorsi educativi ipotizzati e/o esperiti con strategie, metodi, risorse adeguate. Bisogni educativi speciali reclamerebbero interventi tempestivi e qualificati condotti da operatori competenti e capaci di declinare “L’etichette – diagnosi” in osservazione finalizzata a rilevare il potenziale residuo per utile condivisione con personale docente adeguatamente formato.

Per quanto la normativa e gli atti ad essa conseguenti garantiscano pari diritti ed opportunità su tutto il territorio nazionale, si rilevano macroscopiche differenze, in merito alla qualità dei servizi offerti per livelli di specializzazione  e tempistica, da una regione all’altra.

Si osserva una incontrollata fioritura di micro – associazioni, cooperative, Enti di Formazione, che ancorché garantire pluralità di qualificata offerta disperdono un importante patrimonio di risorse in progetti che spesso non hanno ricadute incisive, ne per qualità dell’offerta, né per prospettive nella vita delle persone diversamente abili. È inimmaginabile pensare di rispondere in modo qualificato ai bisogni educativi e formativi delle persone diversamente abili utilizzando le stesse modalità e gli stessi mezzi che stentatamente sopperivano a ciò negli anni novanta del secolo scorso.

Lo strumento più idoneo ad uniformare le proposte, i linguaggi, dei diversi partner coinvolti nei progetti di inclusione delle persone diversamente abili è l’osservazione condivisa nel rispetto del proprio ruolo e mandato istituzionale.

Quale osservazione? L’osservazione che  guarda oltre, che non si focalizza sulla disabilità, che non si ferma a rilevare  cosa, in quel bambino o adulto non c’è: non parla, non aggancia lo sguardo dell’interlocutore, ecc.

Il deficit, la menomazione, devono essere considerati come un dato oggettivo rilevato dagli specialisti, non quale primo ed unico elemento qualificante l’osservazione.

Al centro del progetto d’inclusione deve essere posta la persona diversamente abile, sia essa un bambino sia essa un adulto, con  una rilevazione positiva delle competenze, di ciò che sa fare e del modo con cui  lo fa. La conoscenza del protagonista del progetto in tutti gli aspetti che gli sono propri e in tutti gli elementi che lo riguardano, sarà il vettore dell’inclusione, di conseguenza l’osservazione diventerà un importante mediatore dell’integrazione. In quanto strumento, mezzo, l’osservazione non può essere considerata un fine; gli elementi dai quali partire per una ricognizione finalizzata ad educare ed istruire sono necessariamente riferiti ad una data persona in cui si osserveranno: le caratteristiche, le risorse che possiede, le difficoltà che segnala, i bisogni che presenta. Dobbiamo concentrarci sul “cosa?” “perché” la persona che è innanzi a noi merita di più di una crocetta su un formulario.

Logopedia

A cura della Dottoressa Maria Letizia Lombardi

Gli incontri di counselling logopedico offrono alla famiglia la possibilità di esternare i propri dubbi, condividere le procedure, e al terapista la possibilità di spiegare quali siano i migliori approcci relazionali e l’importanza del mantenimento dello stato di igiene e salute generale.

La vista è un organo di senso di rilevante importanza per il corretto sviluppo delle abilità alimentari. Infatti la vista di un cibo appetitoso attiva processi biochimici che innalzano il senso di fame e il desiderio di mangiare (es. l’aumento della salivazione è preparatorio per il processo digestivo). La mancanza della vista, soprattutto se congenita, in assenza di tempestive ed adeguate stimolazioni ambientali, non favorisce il contatto con il cibo del bambino cieco esitando spesso in resistenze tattili avverso ciò che non conosce.

La migliore chance richiede intervento precoce, in cui il logopedista effettua un monitoraggio inerente: la comunicazione e le competenze sociali, le abilità di alimentazione, lo sviluppo linguistico e gli apprendimenti scolastici; tale monitoraggio ha una ottica sia preventiva sia abilitativa propriamente detta.

L’impossibilità di osservare la bocca dell’interlocutore associato alla mancanza di adeguate stimolazioni genera spesso un fisiologico ritardo nell’acquisizione di alcuni suoni; il lessico è tendenzialmente costituito da concetti concreti e sovente manca l’utilizzo consapevole delle parole legate alla sfera visiva.

Tiflologia

A cura della Dottoressa Loredana Piccolo

Un ramo della pedagogia generale che studia e sostiene i processi formativi delle persone con bisogni speciali e di conseguenza i metodi ed i mezzi specifici per rispondere ai bisogni educativi speciali.

In Tiflologia, l’atto educativo con cui i car giver condividono l’esperienza tattilo – uditivo – cinestesica del proprio bambino (generando ciò che in psicologia viene definito deissi).

Sì, ma è opportuno precisare che l’art. 1 dell’O.M. del 27 giugno 1924 recitava che: “L’obbligo si assolve nelle scuole private o paterne, negli istituti dei ciechi all’uopo designati e presso le pubbliche scuole elementari dove gli alunni ciechi debbono essere ammessi dalla quarta elementare”.

Nella prima fase dello sviluppo il bambino minorato della vista necessita di stimoli ordinati e costanti che attraverso “la conoscenza guidata” animino la curiositas.

Essendo l’ingrandimento inversamente proporzionale al campo visivo tale affermazione non ha fondamento.

Perché per la prima volta ha previsto nel sistema pubblico di istruzione italiano “l’estensione dell’obbligo scolastico ai ciechi e ai sordomuti che non presentassero altre anormalità”.

Molti autori ritengono opportuno introdurre l’alfabetizzazione informatica dalla terza classe della scuola primaria. Tale indicazione deve tuttavia intendersi quale generalista e subordinata ad accurata osservazione e ricognizione del potenziale residuo dell’interessato; l’alunno potrebbe infatti trarre vantaggio dall’introduzione delle nuove tecnologie prima o dopo tale indicativo termine.

Informatica e tecnologia assistiva

A cura del Professore Mirko Montecchiani

Esistono tecnologie che permettono a chi non vede di poter utilizzare dispositivi informatici quali computer, smartphone, tablet, basate su un sistema di lettura schermo. Un software legge il contenuto dello schermo (quando e dove l’utente lo richiede) restituendo le informazioni ad una sintesi vocale o a un display Braille.

Per rendere più agevole ed accessibile l’utilizzo dei dispositivi informatici, gli utenti ipovedenti possono utilizzare un sistema di ingrandimento schermo.

Si tratta di uno software che permette a utenti con disabilità visiva parziale di migliorare la visualizzazione del contenuto presente sullo schermo di un computer, attraverso l’ingrandimento del testo, del cursore e delle immagini, nonché attraverso la personalizzazione dei colori e del contrasto dei caratteri e degli oggetti grafici.

Gli utenti che non vedono utilizzano la tastiera comune come periferica di input fondamentale. Essa viene infatti impiegata anche in sostituzione agli strumenti di puntamento (mouse, touchpad ecc.), grazie a specifiche combinazioni di tasti (dette comandi da tastiera) che possono essere divise come segue:

  • Comandi da tastiera propri del sistema operativo (in Microsoft Windows ad esempio: ALT+F4 per chiudere una finestra, WINDOWS+D per visualizzare il desktop ecc. ecc.): questi comandi variano a seconda del sistema operativo utilizzato; pertanto, l’elenco completo delle combinazioni è disponibile nella relativa guida in linea.
  • Comandi da tastiera propri dell’applicazione in uso (in Microsoft Word ad esempio: CTRL+ALT+T apre la finestra di dialogo per la ricerca e la sostituzione di testo, F12 apre la finestra di dialogo Salva con nome ecc. ecc.): questi comandi variano a seconda del programma che si sta utilizzando; pertanto, l’elenco completo delle combinazioni è disponibile nella relativa guida in linea.
  • Comandi da tastiera propri dello screen reader (in Jaws ad esempio: INS+DOWN per iniziare la lettura di un testo, CTRL per arrestare la lettura, PAGUP a PAGDOWN per aumentare e diminuire la velocità del sintetizzatore durante la lettura ecc. ecc.): questi comandi variano a seconda dello screen reader utilizzato; pertanto, l’elenco completo delle combinazioni è disponibile nella relativa guida in linea.

La lettura e la scrittura sono attività basilari per la formazione. Le tecnologie informatiche assistive hanno rivoluzionato la didattica in favore delle persone con disabilità visiva. Grazie al lettore di schermo e all’utilizzo corretto della tastiera, infatti, alunni e studenti possono leggere e gestire testi con facilità, in piena autonomia.

La Section 501 USA impone che tutti i sistemi operativi preinstallati nei dispositivi in commercio siano dotati di funzioni assistive quali: lettore di schermo, sintesi vocale, riconoscimento vocale (utile a chi ha difficoltà motorie) ed altri strumenti per l’accesso facilitato. In alcuni casi, tuttavia, le funzioni native non sono sufficienti a supportare l’utente nell’utilizzo del sistema operativo stesso o di altre applicazioni comuni, in quanto, alcune case produttrici di sistemi operativi si limitano a rispettare i requisiti di legge, senza di fatto, “pensare alle esigenze reali dell’utente con disabilità”.

Ad esempio, un computer con sistema operativo Windows, ad uso didattico (oltre che personale), andrebbe dotato dei seguenti software:

  • Screen reader: raccomando NVDA, gratuito e funzionale.
  • Sintesi vocale: raccomando IVONA, il cui costo, ogni singola voce è di 39,00 €

Dotare un computer di tecnologia assistiva è generalmente semplice e poco costoso; tuttavia, è importante tenere a mente che la tecnologia assistiva rappresente soltanto lo strumento di accesso: l’adozione di ogni mezzo didattico, infatti, richiede sempre accurate valutazioni.

L’aspetto più complesso ed impegnativo riguarda però la formazione: intesa sia come percorso di apprendimento rivolto all’utente finale, sia come formazione al personale docente ed educativo che lo supporta.

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