Una salus victis nulla sperare salutem

Augusto Romagnoli nacque a Bologna il 19 luglio 1879[1]. Spirito indomito, proteso alla costante ricerca della verità, dotato di un’intelligenza vivacissima, perse la vista in entrambi gli occhi a causa di una congiuntivite neonatale.

Nel 1884, Augusto, all’età di cinque anni, entrò all’istituto dei ciechi di Bologna, oggi denominato “F. Cavazza”.

Trascorse in istituto gli anni tra il 1884 e il 1896, dedicandosi alle attività che in quel tempo l’istituto offriva: intreccio del vimini, impagliatura delle sedie, studio della musica.

Nel 1896 si iscrisse al liceo-ginnasio Galvani di Bologna dove, in tre anni, riportando medie eccellenti e senza mai nascondersi dietro la minorazione, conseguì la licenza.

In quel tempo: i ciechi possedevano si e no una tavoletta per scrivere, le opere trascritte in Braille erano ancora scarse e, semmai questi motivi non fossero stati sufficienti a dissuadere un minorato della vista che avesse voluto intraprendere gli studi superiori, la società non concepiva proprio questa idea che, anzi era ritenuta follia.

Romagnoli per studiare si sottopose a sacrifici disumani: studiava il greco facendosi disegnare sul palmo della mano la forma delle lettere, la geometria tracciando con un cordoncino le figure ed i teoremi su un cuscino, di notte trascriveva i testi che poi gli sarebbero serviti. Lo sforzo a cui si sottoponeva era terrificante, spesso era costretto a fermarsi per bagnare il polso indolenzito in una ciotola contenente acqua e aceto.[2]

Nel 1900 si iscrisse all’università, scelse la facoltà di Lettere e Filosofia e fu allievo di Pascoli e di Francesco Acri.

Nel 1904, si laureò con una tesi, scritta interamente in latino, avente per tema il confronto tra Virgilio e Teocrito: “Cur et quomodo Theocritus in bucolicis carminibus Virgilius imitatus sit.”[3].

Non dobbiamo, però, immaginare un giovane “secchione”, votato all’estremo sacrificio per amore delle lodi: Romagnoli era un giovanotto spigliato ed affascinante, che vedeva nello studio la possibilità di trovare un lavoro dignitoso per guardare a fronte alta al futuro.

Se il giovane Romagnoli affrontò, stoicamente, ogni sorta di sacrifici per studiare fu per essere uomo tra gli uomini.

Augusto bambino era stato portato più volte dalla madre in Chiesa per essere benedetto nel tentativo di “ammansuetirlo”; giovinetto si era concesso una gita fuori porta a casa di amici mentre tutti lo credevano a scuola.

Romagnoli, divenuto ormai giovanotto, a quanti cercavano di dissuaderlo dall’idea di affrontare studi classici, rispondeva ridendo che se non avesse trovato da lavorare come professore avrebbe chiesto l’elemosina in latino[4].

Romagnoli sollecitato da Francesco Acri – che animato da un interesse speculativo desiderava non disperdere la preziosa esperienza maturata da quel giovane non vedente – espose con umiltà e modestia le sue motivazioni morali e scientifiche nella tesi: “Introduzione all’educazione dei fanciulli ciechi”, laureandosi in filosofia  nel 1906 a Bologna.

Accolse l’invito del professor Acri, che desiderava indagare sulle conseguenze che la minorazione visiva aveva nella formazione della personalità sugli effetti psicologici che potevano gravare sulla formazione del pensiero, con spirito di servizio, lasciando da parte i sentimenti personali che lo avrebbero indotto a vivere in un “Pensoso silenzio” giacché “Troppo si scrive oggi, ed i lettori non sono sufficienti […]. Tanto, le idee sono nell’aria, e qualcheduno le manifesta sempre”.[5]

I ciechi avevano bisogno che qualcuno parlasse di loro, delle speranze che li animavano, delle difficoltà che la minorazione comporta e, soprattutto, di come l’intelligenza può vincere qualunque minorazione sensoriale, per quanto grave possa essere.

Alle donne e agli uomini privi della vista mancava la possibilità di essere conosciuti attraverso un sano discernimento che andasse oltre i sentimenti di pietismo, che per lo più animavano quanti li frequentavano.

Per penetrare il pensiero e le opere di Augusto Romagnoli è necessario fare riferimento ai fermenti, pedagogici e filosofici, che percorsero i primi trent’anni del secolo scorso: la prospettiva crociana che pone l’accento sul senso del mondo e del valore della storia, quella gentiliana che supera la visione positivistica.

La riflessione idealistica permise al Romagnoli di conciliare la sua profonda religiosità con un realistico senso del concreto: ciò gli consentì di avvicinarsi al pensiero della Montessori, alla psicologia intuitiva, ed alle “Scuole Nuove”.

Augusto Romagnoli, apostolo dei ciechi, vide nella sofferenza la via della salvezza e, come lui stesso racconta, fece della sua croce un trofeo: “Io, figlio della notte, illuminato alla rivelazione dello spirito, ho fatto della mia croce un trofeo e una missione: additare ai distratti della luce del sole quella luce che non conosce l’occaso.”. “Non è in nome della sventura che dobbiamo avanzare, ma dei fiori e dei frutti che i forti sanno trarre da essa; non fuggitivi del dolore, verso le facili aberrazioni delle false delizie, ma fieri e sereni assertori della santità del sacrificio, delle gioie impareggiabili dello spirito.”[6].

In un tempo irriverente come il nostro, in cui spesso il più bieco individualismo, ammantato dalla parola democrazia, consente a chiunque di dire il contrario di tutto e di scadere nell’opinionismo, parlare della religiosità di un uomo cieco morto nel 1946 potrebbe sembrare démodé, quanto ovvio, se riferito a quegli anni.

Romagnoli, però, non era un uomo animato da una fede bigotta, frutto della disperazione, né tantomeno un bacchettone di stampo moralista.

La riflessione, richiestagli dal professor Acri, lo avvicinò ad un campo dello scibile che forse non avrebbe esplorato, lo costrinse a meditare ed approfondire sulla propria storia di cieco emancipato, culminò con il premio per le ricerche di studi e di cultura “Vittorio Emanuele II”[7].

Dopo anni di insegnamento nelle scuole pubbliche del Regno, Augusto, non poté sottrarsi all’obbligo morale di sperimentare il metodo e le linee pedagogiche che aveva tracciato  nella seconda tesi di laurea.

Romagnoli ha il merito di aver creduto che i ciechi fossero educabili e di aver reso ciò possibile, fondando la prima scuola per non vedenti in un Paese che, rispetto alle altre nazioni europee e d’oltreoceano, era giunto con un certo ritardo a legiferare in materia.

In Prussia sin dal 1806, con un decreto di Federico Guglielmo III, per interessamento della regina Luisa, era stata istituita, con fondi dello Stato, una scuola professionale al termine della quale esisteva addirittura un impegno per il collocamento al lavoro dei ciechi.

Negli Stati Uniti la prima legge, proposta da Samuel Howe, aveva reso obbligatoria l’istruzione dei fanciulli ciechi sin dal 1830.

In Italia, neanche il governo presieduto da Cavour accettò di impegnarsi a favore dell’istruzione dei ciechi. Solo nel 1924, con il Regio Decreto n. 3126 del 1923, si rese obbligatoria l’istruzione dei fanciulli non vedenti.

Sebbene a malincuore, Romagnoli lasciò l’insegnamento nella scuola pubblica per dedicarsi all’educazione dei fanciulli ciechi. Affrontò questa scelta con l’animo del cristiano disposto a sacrificare le proprie aspettative per il bene altrui, con la disposizione di chi si dedica per vocazione ad impegno santificante.

L’esperienza condotta “dall’apostolo” dei ciechi nel 1912 a Roma, presso l’ospizio Margherita, si connota, a tutti gli effetti, come una nuova forma di vita scolastica integralmente attivistica.

Il metodo proposto da Romagnoli è incentrato su un principio nodale: la scuola deve offrire la più ampia soddisfazione al fanciullo, visto nella sua integrità di persona.

Sin da giovane il suo spirito critico si misurò con il motivo fondante il  pensiero psicopedagogico che lo animò per tutta la vita: il senso della sua presenza di uomo minorato nella società.

Si chiedeva in che modo il suo spirito e la sua conoscenza, che non utilizzavano gli stessi canali sensoriali degli altri uomini, erano limitate nell’espressione del proprio essere in un mondo di vedenti che usavano un linguaggio a lui inaccessibile. Dedusse che l’intelligenza ed il pensiero non si lasciano imprigionare dalle minorazioni e mise duramente alla prova sé stesso per dimostrare ciò. Realizzò poi che, per vivere dignitosamente fra i vedenti, il cieco deve dotarsi anche di una certa amabilità, che favorisce nei suoi confronti il passaggio “dalla pietà alla scienza”. Così chiarisce il proprio pensiero sia ai ciechi, che ai vedenti: “La gratitudine è come la felicità: chi la cerca non la trova e viceversa.”. “Gli altri buoni per dovere essi buoni per forza.” “Ma vorrei dire frattanto a quelli che vedono, a tutti quelli che avessero a trovarne corrispondenza scarsa: “Siate indulgenti! Credete voi che sia fatica lieve questa santificazione forzata, questa continua mortificazione di tutti i sentimenti più umani, questa pazienza senza limiti, questa prudenza impeccabile, questa perseveranza senza scosse a noi necessaria?  – Beati i tribolati! – sì, ma sapete quanto è amara questa parola, quanto sarcastica in bocca dei gaudenti o pur creduti tali?  – Povero cieco! – sapete come suoni questo compianto, udito cento volte ogni giorno, come un saluto al nostro passaggio? Questo memento homo, che viene a rompere ogni momento il corso dei nostri pensieri, a strappare le bende della nostra piaga?”[8]

Chiaro che l’impegno educativo di Romagnoli fu sempre permeato dalla pietas virgiliana e non da sciocchi sentimentalismi.

Il dovere sociale verso i ciechi lo spinse ad impegnarsi a scrivere di loro, affinché i vedenti potessero conoscerli, aiutarli, comprenderli e non trattare quanti di loro riescono nella vita come fenomeni.

La bontà e la curiosità non recuperano alla società i non vedenti, solo l’amore, accompagnato dalla conoscenza e quindi dalla scienza, può fare ciò.

E’ necessario produrre una nuova cultura della diversità, protesa a definire progettualmente limiti e potenzialità di una persona affetta da un deficit, per favorirne la massima espressione, allontanando la tentazione di ridurre l’integrazione di un disabile all’aspetto pietistico o fenomenico.

Questa affermazione è dolorosa alla luce delle parole che Romagnoli scrisse il 1° Luglio 1908: “La carità diede ai ciechi la musica, la scienza deve dare la filosofia; la carità diede loro la rassegnazione, la scienza deve dare l’ardimento. (…)

La carità cercò di fare loro dimenticare l’imperfezione coi suoi pietosi conforti; la scienza deve darne loro la massima coscienza, col cimentarli con sua scorta a tutte le difficoltà. Molti ne vinceranno, altre ne tenteranno invano; ma sarà come averle vinte l’acquistare la coscienza dell’impossibilità, e conseguentemente l’industria di sopperirvi per altre vie.”[9]

La conoscenza del bambino cieco genera la confidenza e la cooperazione necessarie a condividerne il progetto educativo.

Bisogna educare la sensibilità che illumina l’intelligenza perché nessun senso è insostituibile.

Con questo spirito e con altrettanta determinazione, Romagnoli si accinse, nel 1912, ad incontrare le cinque fanciulle cieche che avrebbe dovuto educare, dimostrando l’efficacia della sua idea pedagogica.[10]

Lo scenario, in cui si sviluppò questa prima esperienza, fu quello del casale San Pio V in cui era allocato l’ospizio “Regina Margherita”.[11]

L’ospizio “Per poveri ciechi” offriva alle fanciulle una vita tranquilla e inoperosa, le riparava dai “mali del mondo”, ma le costringeva a morire sepolte vive.

Il casale si presentava come il luogo ideale per condurre le fanciulle alla scoperta del reale: un giardino incolto, frontoni cinquecenteschi e capitelli abbattuti, fontane disseccate e viali ricoperti dalle ortiche.

La fantasia e l’intuito magistrale di Romagnoli, non videro nel casale il luogo dell’abbandono e della desolazione, vi scorsero invece la palestra, che con una sana attività fisica, avrebbe restituito le fanciulle alle gioie della loro età.

Romagnoli seppe trarre vantaggio da ogni più piccolo dettaglio che il casale gli offriva: la struttura architettonica, i declivi e le imperfezioni del giardino incolto, la diversa pavimentazione dei vari ambienti e perfino dalla presenza delle anziane ospiti e delle suore.

Nel 1924 nell’opera “Ragazzi Ciechi” Romagnoli descrisse l’esperienza condotta all’ospizio “Regina Margherita”, in cui aveva potuto esperire il suo metodo attivo.

Il Metodo Romagnoli basato sull’educazione sensoriale, sulla formazione del carattere, sulla conquista personale dell’ambiente, sulla ricostruzione delle immagini spaziali e delle relazioni d’ambiente realizzate attraverso il movimento e lo spostamento del corpo nello spazio, non si appiattiva però nello spontaneismo.

Romagnoli, chiamato da Lombardo Radice, partecipò alla stesura dei programmi per la scuola elementare destinati agli alunni ciechi.

Visitò, per incarico del Ministero della Pubblica Istruzione, tutte le istituzioni pro-ciechi esistenti in Italia per scegliere quelle che possedevano i requisiti utili per divenire istituti scolastici per i ciechi.

Opera non facile, anche per il valente tiflologo, se si considera che in molte istituzioni pro-ciechi anziani e fanciulli vivevano, o per meglio dire sopravvivevano, nella più assoluta promiscuità e nella più totale inedia.

La cernita delle istituzioni, degne di diventare istituti scolastici per i minorati della vista, non risolveva però tutti i problemi relativi all’istruzione dei fanciulli ciechi.

Il personale delle ex istituzioni pro-ciechi non era preparato a condurre gli alunni oltre la solita programmazione, erogata più per occupare il tempo che per istruire gli alunni.

Romagnoli, che intanto sperimentava il suo metodo, delineò il profilo e la preparazione che avrebbero dovuto connotare gli educatori dei ciechi.

Nel 1925, il Regio Decreto n.2483 istituiva la “Regia Scuola di Metodo per gli Educatori dei Ciechi” con il duplice scopo di preparare educatori, insegnanti, e di sviluppare e approfondire il metodo.

Romagnoli, anche quando le sue condizioni di salute divennero proibitive, continuò ad interessarsi dei progressi e delle difficoltà di tutti gli alunni della scuola; morì, dopo una lunga malattia, l’8 Marzo 1946.

Note

[1] Romagnoli A., Ragazzi ciechi, Armando Editore 1973, p.11.

[2] Ceppi. E., I Minorati della vista, Armando Editore, Roma, 1969, p.28.

[3] Ibidem, p.16; Scritti in onore di Augusto Romagnoli, De Luca Edizioni Istituto grafico Tiberino, Roma 1966, p.175.

[4] Romagnoli A., Ragazzi ciechi, op. cit., p.14

[5] Romagnoli A., Pagine vissute di un educatore cieco, op. cit., p.V.

[6] Ibidem, pp.205 – 206.

[7] Ceppi E., I minorati della vista, op. cit., p.29.

[8] Ibidem, pp.80 – 81.

[9] Ibidem, p.117.

[10] Romagnoli A., Ragazzi ciechi, op. cit., pp.31 – 32.

[11] Ibidem, pp.39 – 41.

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